Posizioni difficili da selezionare, in Lombardia sono il 28%

In Lombardia, è difficile trovare i candidati giusti nel 28% dei casi. Una percentuale pari a 166 mila ingressi su 666 mila ingressi, un dato in linea con quello italiano. In particolare, difficili da reperire sono i meccanici di precisione a Milano, i matematici a Brescia, Monza Brianza, Bergamo, e Lecco, i conduttori di impianti industriali a Sondrio, gli artigiani metalmeccanici a Cremona, gli ingegneri a Mantova, gli amministratori di grandi aziende a Lodi e i responsabili di piccole imprese a Pavia, Varese e Como. Questo, secondo le previsioni delle imprese per l’anno 2018, in una elaborazione della Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi Lodi su dati del Sistema Informativo Excelsior realizzato da Unioncamere in collaborazione con ANPAL.

I meno reperibili, specialistici in scienze matematiche, informatiche, fisiche e naturali

“Il numero crescente di giovani che vanno all’estero, per restarci, penalizza il nostro Paese – commenta Carlo Sangalli, presidente Camera di commercio di Milano, Monza Brianza e Lodi -. Dobbiamo invece attrarre e valorizzare capitale umano a livello internazionale sia italiano sia straniero”. Di fatto, in Lombardia i più difficili da trovare sono gli specialistici in scienze matematiche, informatiche, fisiche e naturali (57% e 8.240 ingressi), gli artigiani e operai specializzati in metalmeccanica ed elettronica (51,5% e 54.630 ingressi) e gli operai specializzati in meccanica di precisione, stampa e gli artigiani artistici con una difficoltà di reperimento del 49,1% su un totale di 3.260 ingressi.

Le professioni vacanti a Milano e nelle province

Gli operai specializzati nella meccanica di precisione, stampa e artigiani artistici sono i più difficili da trovare a Milano (1.220 ingressi, il 69,7%), mentre le professioni difficili da trovare nelle province lombarde sono gli specialisti in scienze matematiche, informatiche, fisiche e naturali a Brescia (62,5%, 320), Monza Brianza (68,2%, 660), Bergamo (65,5%, 580) e Lecco (66,7%, 60), i conduttori di impianti industriali a Sondrio (63,6%, 110), gli artigiani e operai specializzati in metalmeccanica ed elettronica a Cremona (55,6%, 1.620), e gli ingegneri a Mantova (33%), pari a 8 mila ingegneri non reperibili.

Non si trovano ingegneri

Per quanto riguarda gli ingegneri, se in generale le difficoltà maggiori si riscontrano a Mantova, di poco inferiore la percentuale riguarda Monza e Brianza, Brescia, Pavia, Varese e Lecco, col 31% (pari, rispettivamente, a 13 mila, 26 mila, 7 mila, 14 mila, 5 mila addetti). Più facilità di selezione invece a Milano, col 25% degli ingressi. A Lodi non si trovano invece gli amministratori o direttori di grandi aziende (100%, 10), e i responsabili di piccole imprese a Pavia (100%, 20), Varese e Como (100%, 10).

Colorare la casa. Da Nord a Sud la tavolozza delle donne italiane

Il colore è l’elemento che rende viva la nostra casa trasformandola in uno spazio vissuto personale. Il colore ha un ruolo essenziale nella vita, è un elemento in grado di esprimere identità e stati d’animo, e di agire attivamente sull’emotività delle persone. Ma quali sono le preferenze cromatiche delle donne italiane in fatto di casa? Se al Nord si predilige il giallo, al Centro non si disdegna il verde, e al Sud il blu o l’azzurro.  Lo dimostra la ricerca Gli stili emotivi dell’abitare, di Sigma Coatings, brand di PPG Univer, che approfondisce il rapporto tra le donne, il colore e le loro case. Un legame estremamente ricco, profondo e personale.

Al Nord la casa si dipinge di giallo, al Centro di verde

Al Nord vince il giallo (26%), colore associato all’allegria (23%), al calore (23%) e alla solarità (13%). Seguono altre tonalità calde, come l’arancione (25%) e il rosso (20%), rispettivamente sinonimo di allegria (19%) ed energia (22%). Sfumature che le italiane preferiscono utilizzare nelle zone dedicate alla condivisione, come la cucina e il living.

Anche tra le donne del centro il giallo riscuote un certo successo (8%), ma preferiscono la più fresca e riposante tonalità del verde (11%), colore associato a serenità (28%) e tranquillità (24%), e che investe le pareti delle zone dedicate al relax, come la camera da letto e il soggiorno.

Il Sud si divide fra rosso e azzurro

Il cuore delle donne del Sud, invece, si divide in due. Da un lato è rapito dalle sfumature di blu e azzurro (14%) dall’altro emerge la preferenza per il rosso (12%), colore di passione (19%). Ma mentre i primi due sono colori che hanno la dote di portare serenità (32%) e tranquillità (39%), ideali per conciliare il riposo nelle camere da letto, il rosso è un colore capace di generare allegria (11%), impiegato principalmente nei soggiorni.

In generale, il 79% delle donne intervistate dà molta importanza ai colori utilizzati in casa. Questo accade perché associano il colore all’emotività (22%), alla creatività (19%) e all’energia (17%), ossia a una sfera estremamente intima, feconda e vitale della propria persona, e che trova libera espressione nel luogo più personale che ci sia, la propria casa.

Scegliere la tinta giusta è una questione emotiva

Non per niente, gran parte delle donne intervistate si trovano estremamente d’accordo nell’affermare quanto sia “fondamentale la presenza dei propri colori preferiti in casa”, di elementi cioè, che sappiano trasmettere un senso di sicurezza e familiarità all’interno della propria dimora.

Scegliendo i colori per dipingere le pareti, riporta Ansa, incidono molto i fattori emotivi. Quasi come andare a un “mercato psicologico” del colore cercando risposte cromatiche innovative. Ma che attraverso un utilizzo funzionale e consapevole del colore sfruttino al massimo le sue potenzialità benefiche, riportando al centro del progetto l’individuo e il suo benessere.

Gli italiani e il mal di schiena, tra i giovani aumenta quello da stress

Il mal di schiena non è una diagnosi, è un sintomo, e l’80% delle persone nel corso della vita ne ha sofferto almeno una volta. Ma il dolore può essere causato da problemi diversi, e non necessariamente da discopatie e artrosi: può infatti derivare anche da un aneurisma dell’aorta, da alcuni tumori o problemi addominali, e persino da patologie ginecologiche.

“C’è poi il mal di schiena da stress, un problema in aumento in questi anni, specie nella popolazione giovane, collegato a problemi lavorativi o familiari: le tensioni psicosomatiche proiettano un dolore nella parte posteriore della colonna, a livello cervicale o più spesso lombare”, spiega all’Adnkronos Salute Vincenzo Denaro, professore ordinario e primario emerito di Ortopedia e traumatologia all’Università Campus Bio-Medico di Roma.

Consultare un esperto ed evitare le cure fai da te

Per scoprire la causa del mal di schiena il medico non deve limitarsi a ricorrere alla diagnostica per immagini, ma deve parlare con il paziente e ascoltarlo. Ecco perché è anche importante non sottovalutare il problema, ma rivolgersi a un professionista preparato, evitando autodiagnosi o cure fai da te. Riconoscere un aneurisma dell’aorta, ad esempio, può salvare la vita.

“Tutti i mal di schiena che nascono dalla struttura scheletrica – sottolinea poi lo specialista – hanno come conseguenza il blocco del soggetto, mentre se il dolore viene dai visceri c’è una sofferenza, ma il paziente non si blocca completamente”. Nel caso delle discopatie, inoltre, hanno anche una componente genetica, alcune famiglie ne soffrono, altre no. Anche in questi però casi non sempre è necessario l’intervento chirurgico.

Se un’ernia comprime un nervo è necessario l’intervento chirurgico

L’intervento chirurgico è invece necessario solo se un’ernia comprime un nervo provocando un deficit motorio. “Su 100 persone col mal di schiena – assicura Denaro – 80 possono guarire senza chirurgia: esistono approcci fisioterapici, attività fisica mirata, farmaci. Occhio invece alla moda degli approcci percutanei, che promettono di risolvere il problema in ogni caso”.

Inoltre oggi la tecnica chirurgica è diventata meno invasiva. “Il paziente si alza il giorno dopo l’intervento, dopodiché occorre pianificare un periodo di riabilitazione. In media nel caso di lavori usuranti occorrono 3 mesi, altrimenti può bastare un mese”, spiega l’esperto.

Una postura auto-reggente aiuta a prevenire problemi alla colonna vertebrale

Secondo Denaro il recupero dall’intervento è sempre completo. “Basti pensare ad esempio a Dino Zoff, che dopo l’intervento per l’ernia – ricorda Denaro – è tornato a fare il portiere della Nazionale”. Per quanto riguarda le recidive, certo esistono, ma sono nell’ordine dello 0,1% dei pazienti.

Ma il messaggio dello specialista è chiaro: “La colonna funziona come le marionette, se le teniamo dritta, resta dritta. Dunque se si conserva il tono muscolare, facendo attività fisica, nuoto e prendendosi cura del proprio corpo, una postura auto-reggente aiuterà a prevenire problemi alla schiena”.

Trattamenti green, è boom per l’estetica bio

È un vero e proprio boom per i trattamenti di bellezza che utilizzano prodotti naturali. Tra colorazioni con pigmenti naturali e ingredienti biologici, e trattamenti cutanei a base di prodotti totalmente green, le prenotazioni segnano un +47% rispetto allo scorso anno. Scegliere questo tipo di trattamenti però non è sempre facile, soprattutto per il portafogli. Per l’estetica con prodotti 100% green, infatti, si deve mettere in conto in media una spesa del 12% più alta rispetto ai trattamenti di origine non organica. Almeno, secondo quanto rileva un’indagine dedicata alla consapevolezza green di Uala, il sito dedicato al mondo beauty.

Green non è sempre sinonimo di prezzi alti

L’attenzione al rispetto del pianeta investe molti settori e tra questi anche il beauty. “Ecco perché siamo disposti a spendere di più per prenotare un trattamento che riesca a renderci belli senza sensi di colpa verso l’ambiente – spiega Alessandro Bruzzi, ceo e co-fondatore di Uala -. Ma c’è una buona notizia: green non è sempre sinonimo di prezzi alti. Se spesso per i capelli bisogna mettere in conto cifre maggiori rispetto alla media, per il corpo, ad esclusione dalle categorie più costose dei trattamenti con prodotti di sintesi come acidi glicolici e mandelici e che sfruttano componenti naturali, la spesa può arrivare ad essere anche del 14% inferiore”.

I centri di bellezza rispettano l’ambiente?

Uala ha chiesto ai saloni presenti sul portale anche quale fosse il loro impegno nel rispettare l’ambiente. Solo poco più della metà (52%) dei saloni intervistati ha sostituito le mantelline usa e getta con quelle lavabili, e appena il 37% dei saloni predilige prodotti con confezioni in vetro e alluminio, più smaltibili rispetto alla plastica. Buone notizie invece per la raccolta differenziata: l’81% dei gestori di saloni beauty conferma di differenziare gli scarti, ed è alta anche l’attenzione verso l’energia, con il 56% che dichiara di aver fatto installare inverter e/o pompa di calore. Quasi 1 salone su 4 (24%), inoltre, ha a cuore il risparmio dell’acqua, con l’installazione di rubinetti termostatici, mentre 1 professionista su 3 (34%) ha ridotto l’impatto della propria attività utilizzando arredamento creato con materiali di riciclo. Appena il 7% dei saloni ammette però di non aver ancora adottato pratiche amiche dell’ambiente.

Quasi un salone su 5 dichiara di dotarsi esclusivamente di prodotti bio

Dall’indagine, riporta Adnkronos, emerge che quasi un salone su 5 (19%) dichiara di dotarsi esclusivamente di prodotti bio, mentre sommando i saloni che ne fanno uso in prevalenza, e quelli che ne utilizzano soltanto qualcuno, la percentuale sale all’81%.

Alto anche il numero di saloni che presta attenzione alla provenienza dei cosmetici, in particolare, al fatto che non vengano testati su animali (78%). L’attenzione per il rispetto degli animali, però, non si traduce sempre nell’acquisto di prodotti veg, dal momento che oltre un salone su 3 (36%) dichiara di non poter ancora vantare neanche un prodotto vegano tra quelli esposti.

Facebook contro il revenge porn. Nuova tecnologia e sostegno alle vittime

Condividere su Facebook immagini intime di una persona senza il suo permesso può essere devastante. Facebook interviene nuovamente per contrastare il revenge porn, ovvero la diffusione sui social di immagini intime che vengono condivise senza autorizzazione. Finora, per proteggere le vittime di questo fenomeno, la politica di Facebook è stata quella di rimuovere le immagini segnalate, utilizzando anche la tecnologia del photo-matching per evitare che vengano condivise nuovamente. Ma per trovare questi contenuti più rapidamente, e supportare al meglio le vittime, Facebook annuncia una nuova tecnologia di rilevamento, e un centro di risorse online per aiutare e supportare chi ha subito questo tipo di abusi.

Apprendimento automatico e AI rilevano le immagini

“Trovare queste immagini va oltre il rilevamento della nudità sulle nostre piattaforme – afferma Antigone Davis, responsabile globale della sicurezza -. Grazie all’apprendimento automatico e all’intelligenza artificiale, ora siamo in grado di rilevare in modo proattivo immagini o video che vengono condivisi senza autorizzazione su Facebook e Instagram”. Questo significa che ora è possibile trovare questi contenuti prima che qualcuno li segnali, riporta Askanews. “Il che è importante per due motivi: spesso le vittime hanno paura di ritorsioni, per cui sono restie a segnalare il contenuto stesso, o non sono consapevoli che il contenuto è stato condiviso”, aggiunge Davis.

Se un contenuto viola gli della Comunità verrà rimossa e l’account responsabile disabilitato

Un team composto da persone appositamente formate del centro di Community Operations esaminerà i contenuti individuati dalla nuova tecnologia. “Se un immagine o un video viola i nostri standard della Comunità, lo rimuoveremo e nella maggior parte dei casi disabiliteremo anche gli account che condivideranno contenuti intimi senza autorizzazione – sottolinea Davis -. Offriamo la possibilità di fare appello se qualcuno ritiene che abbiamo commesso un errore”.

Un programma in collaborazione con le organizzazioni a sostegno delle vittime

Questa nuova tecnologia di rilevamento si aggiunge al programma pilota gestito in collaborazione con le organizzazioni a sostegno delle vittime. Questo programma offre alle persone un’opzione di emergenza per inviare a Facebook proattivamente, e in modo sicuro, una foto che temono possa essere diffusa. Inoltre, “per impedire che la foto venga condivisa sulla nostra piattaforma, creiamo un’impronta digitale di quell’immagine – spiega ancora la manager -. Avendo ricevuto un riscontro positivo dalle vittime e dalle organizzazioni di supporto, nei prossimi mesi amplieremo questo progetto pilota in modo che un maggior numero di persone possa beneficiare di questa opzione in caso di emergenza”.

 

Cyber attacchi, +38% nel 2018

Nel 2018 si sono registrati 1.552 attacchi gravi, +38% sul 2017, con una media di 129 al mese. Lo afferma la 14a edizione del Rapporto Clusit sulla sicurezza ICT, che evidenzia come sia sempre il cyber crime la principale causa di attacchi gravi. Il 79% di questi è stato infatti compiuto allo scopo di estorcere denaro, o sottrarre informazioni per ricavarne denaro (+44%). Nel 2018 è stata inoltre registrata la crescita del 57% dei crimini volti ad attività di cyber spionaggio con finalità geopolitiche o di tipo industriale, a cui va anche ricondotto il furto di proprietà intellettuale.

Deciso aumento della gravità media di Hacktivism e Cyber Warfare

Le attività di Hacktivism e di Cyber Warfare (guerra delle informazioni) risultano invece in calo, rispettivamente del 23% e del 10%. In un’analisi dei livelli di impatto per ogni singolo attacco, in termini geopolitici, sociali, economici, di immagine e di costo, si osserva in generale un deciso aumento della gravità media degli attacchi, riferisce Askanews. Le attività riconducibili al cyber crime sono state invece caratterizzate prevalentemente da un impatto di tipo medio. Dovuto, secondo il Rapporto, alla necessità di mantenere un profilo relativamente basso per continuare ad agire senza attirare troppa attenzione.

Chi viene colpito e perché

Negli ultimi dodici mesi la sanità ha subito l’incremento maggiore degli attacchi, pari al 99% rispetto al 2017. Nel 96% dei casi gli attacchi a questo settore hanno avuto finalità cyber criminali e furto di dati personali. Segue il settore pubblico, con il 41% degli attacchi in più, e i cosiddetti multiple targets, che nel 2018 risultano anche i maggiormente colpiti, con un quinto degli attacchi globali a loro danno (+37%). Nel 2018 sono stati presi di mira però anche i settori della ricerca e formazione (+55%), dei servizi online e cloud e delle banche (+36% e +33%).

Le tecniche d’attacco

Il principale vettore di attacco nel 2018 è ancora il malware semplice, prodotto industrialmente e a costi sempre decrescenti (+31%). All’interno di questa categoria, i Cryptominers sono arrivati a rappresentare il 14% del totale (7% nel 2017). L’utilizzo del malware per le piattaforme mobile invece rappresenta quasi il 12% del totale.

Da segnalare la crescita del 57% degli attacchi sferrati con tecniche di Phishing e Social Engineering su larga scala, ancora a testimonianza della logica sempre più industriale degli attaccanti. L’elevato incremento dell’utilizzo di tecniche sconosciute (+47%) dimostra tuttavia che i cybercriminali sono piuttosto attivi anche nella ricerca di nuove modalità di attacco. E se i DDoS rimangono sostanzialmente invariati, lo sfruttamento di vulnerabilità note è in crescita (+39,4%), così come l’utilizzo di vulnerabilità 0-day, (+66,7%), e gli attacchi basati su tecniche di Account Cracking (+7,7%).

Unico dato in calo, le SQL injection, che segnano -85,7%.

Nel 2018 superati i limiti previsti per polveri sottili e ozono in 55 capoluoghi

Le nostre città sono soffocate dallo smog, d’estate come d’inverno. Tra fonti le principali dell’inquinamento, oltre al traffico delle auto, il riscaldamento domestico, le industrie e le pratiche agricole. E l’auto privata continua a essere di gran lunga il mezzo più utilizzato per spostarsi: si contano 38 milioni di automobili di proprietà, che soddisfano complessivamente il 65,3% degli spostamenti.

Una situazione non certo rosea per la nostra salute e per quella dell’ambiente. Di fatto si tratta dei dati ricavati da Mal’aria 2019, il dossier annuale di Legambiente sull’inquinamento atmosferico in Italia nel 2018.

Respirare aria inquinata per 4 mesi all’anno

Ed ecco i numeri di Mal’aria 2010: nel 2018 in ben 55 capoluoghi di Provincia italiani sono stati superati i limiti giornalieri previsti per le polveri sottili o quelli relativi all’ozono, in particolare, 35 giorni per il Pm10 e 25 per l’ozono. In 24 dei 55 capoluoghi, inoltre, il limite è stato superato per entrambi i parametri, con la conseguenza diretta, per i cittadini, di aver dovuto respirare aria inquinata per circa 4 mesi all’anno.

La città con l’aria peggiore è Brescia

La città che lo scorso anno ha superato il maggior numero di giornate fuorilegge è Brescia (Villaggio Sereno), con 150 giorni, 47 per il Pm10 e 103 per l’ozono. Al secondo posto di questa triste graduatoria c’è Lodi, con 149 giorni, 78 per il Pm10 e 71 per l’ozono, e al terzo Monza, con 140 giorni.

Al podio delle città con l’aria peggiore seguono Venezia (139), Alessandria (136), Milano (135), Torino (134), Padova (130), Bergamo e Cremona (127) e Rovigo (121).

A eccezione di Cuneo, Novara, Verbania e Belluno, tutte le città capoluogo di Provincia dell’area padana hanno superato almeno uno dei due limiti, riferisce Adnkronos.

Urgente pianificare misure per abbattere drasticamente le concentrazioni di inquinamento

La prima città non posizionata nella Pianura padana è Frosinone, nel Lazio, con 116 giorni di superamento (83 per il Pm10 e 33 per l’ozono), seguita da Genova con 103 giorni (tutti dovuti al superamento dei limiti dell’ozono), Avellino con 89 (46 per il Pm10 e 43 per l’ozono) e Terni con 86 (rispettivamente 49 e 37 giorni per i due inquinanti).

Un quadro preoccupante, quindi, che per Legambiente indica “l’urgenza a livello nazionale di pianificare misure strutturali capaci di abbattere drasticamente le concentrazioni di inquinamento presenti e di riportare l’aria a livelli qualitativamente accettabili”.

Aumenta la pressione fiscale, ma cresce il potere d’acquisto

Nel terzo trimestre 2018 aumenta la pressione del fisco, ma anche il potere d’acquisto delle famiglie. Secondo i dati rilevati dall’l’Istat nel trimestrale delle Amministrazioni pubbliche, la pressione fiscale nel periodo considerato è stata pari al 40,4%. In aumento quindi di 0,1 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’Istituto di statistica segnala inoltre che nel terzo trimestre 2018 l’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche in rapporto al Pil risulta in calo del -1,7%, contro il -1,8% nello stesso trimestre del 2017. Il saldo primario, ovvero l’indebitamento al netto degli interessi passivi, è risultato positivo, con un’incidenza sul Pil del 2,0%, a fronte dell’1,6% nel terzo trimestre del 2017. Il saldo corrente è stato anch’esso positivo, con un’incidenza sul Pil dell’1,1% (1,6% nel III trimestre del 2017).

Diminuisce l’indebitamento delle PA

Nei primi tre trimestri dell’anno appena passato, sempre secondo dati Istat, la pressione fiscale si è attestata al 39,7% del Pil, in riduzione di 0,2 punti percentuali rispetto al corrispondente periodo del 2017. Complessivamente, riferisce Adnkronos, nei primi tre trimestri del 2018, le Amministrazioni pubbliche hanno registrato un indebitamento netto pari a -1,9% del Pil, in miglioramento rispetto al -2,6% del corrispondente periodo del 2017. Nei primi nove mesi del 2018, in termini di incidenza sul Pil, il saldo primario e il saldo corrente sono risultati positivi, risultando pari, rispettivamente, all’1,8% (1,2% nello stesso periodo del 2017) e allo 0,9% (1,0% nel corrispondente periodo del 2017).

Cresce il potere d’acquisto

Quanto al potere d’acquisto delle famiglie, nel terzo trimestre 2018 il reddito disponibile delle famiglie consumatrici è aumentato dello 0,1% rispetto al trimestre precedente, mentre i consumi sono cresciuti dello 0,3%. Di conseguenza, la propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è stata pari all’8,3%, in diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto al trimestre precedente. L’Istat sottolinea inoltre come a fronte di una variazione dello 0,3% del deflatore implicito dei consumi il potere d’acquisto delle famiglie consumatrici sia diminuito dello 0,2% rispetto al trimestre precedente.

Un livello inalterato dei consumi

A fronte di tali andamenti, e grazie a una lieve riduzione della propensione al risparmio, le famiglie hanno quindi mantenuto un livello quasi inalterato dei consumi in volume.

Sul fronte societario, l’Istat segnala che la quota dei profitti sul valore aggiunto delle società non finanziarie, pari al 41,4%, è diminuita di 0,9 punti percentuali rispetto al trimestre precedente. Il tasso di investimento delle società non finanziarie, pari al 22,2%, è aumentato di 0,1 punti percentuali rispetto al trimestre precedente.

Pagamenti con carte, l’Antitrust: “No a costi extra”

L’Antitrust dice “no” al sovrapprezzo ai clienti che pagano con carta di credito o di debito. Una pratica, questa, in Italia applicata da diverse attività commerciali, specie di piccole dimensioni, che “caricano” un sovrapprezzo per gli acquisti –  ad esempio di biglietti e abbonamenti del trasporto pubblico – a chi vuole pagare con la card. Ora l’Antitrust  ne ha stabilito il divieto. Lo si legge in una nota diffusa dall’Agcm, nella quale l’autorità spiega di aver ricevuto “diverse segnalazioni riguardanti l’applicazione da parte di tabaccai di un sovrapprezzo (spesso pari a 1 euro) in occasione dell’acquisto con carta di debito/credito di sigarette, marche da bollo, biglietti per trasporti pubblici”. L’Autorità, si legge nella nota, “è intervenuta in diverse occasioni per affermare il principio che l’applicazione di supplementi per l’uso di uno specifico strumento di pagamento costituisce una violazione dell’art. 62 del Codice del Consumo, il quale stabilisce che i venditori di beni e servizi ai consumatori finali ‘non possono imporre ai consumatori, in relazione all’uso di determinati strumenti di pagamento, spese per l’uso di detti strumenti'”.

Cosa prevede la normativa europea

“Il divieto generalizzato per il beneficiario di un pagamento di imporre al pagatore spese aggiuntive, rispetto al costo del bene o del servizio, in relazione all’utilizzo di strumenti di pagamento – ricorda l’Antitrust, come scrive AdnKronos  – è stato ribadito nella direttiva (UE) 2015/2366 relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, recepita dal decreto legislativo 15 dicembre 2017, n. 218”. In applicazione di tali norme, ribadisce quindi l’Agcm, “i venditori di beni e servizi al dettaglio non possono dunque applicare supplementi sul prezzo dei beni o servizi venduti nei confronti di coloro che utilizzino, per effettuare i propri pagamenti, strumenti quali ad esempio carte di credito o di debito, qualsiasi sia l’emittente della carta”.

I settori coinvolti

L’Autorità, ricorda ancora la nota, è già intervenuta in numerosi settori per sanzionare l’applicazione di supplementi per l’uso di certi mezzi di pagamento, qualificandola come violazione dei diritti dei consumatori di cui all’art. 62 del Codice del Consumo: nel trasporto aereo, sono state sanzionate compagnie aeree che applicavano un supplemento per il pagamento con carta di credito dei biglietti aerei acquistati online sui propri siti; nella vendita al dettaglio di elettricità e gas naturale, alcuni primari operatori sono stati sanzionati per aver penalizzato il pagamento mediante mezzi diversi dalla domiciliazione bancaria o dall’addebito ricorrente su carta di credito o per aver imposto il pagamento di supplementi per il pagamento con carta di credito sui propri siti Internet. L’intervento dell’Antitrust ha interessato anche nei settori di vendita online di servizi di viaggio, nel quale alcune primarie agenzie di viaggio online sono state sanzionate per aver richiesto il pagamento di supplementi per l’acquisto online dei propri servizi mediante carte di credito; sono state inoltre sanzionate, per lo stesso motivo, una agenzia di viaggio specializzata nella vendita di biglietti per trasporti marittimi ed una specializzata nella vendita di biglietti aerei; nei servizi di rinnovo degli abbonamenti ai trasporti pubblici e di agenzia automobilistica.

Vale per tutti gli esercenti

“L’Autorità invita pertanto tutti gli esercenti commerciali, ivi inclusi i venditori di piccole dimensioni di beni e servizi, che intendano offrire ai consumatori la possibilità di utilizzare più mezzi di pagamento per l’acquisto dei beni e dei servizi venduti, a conformarsi alle prescrizioni del Codice del Consumo e del D.Lgs. 218/2017, eliminando ogni supplemento di prezzo applicato in relazione all’utilizzo da parte dei consumatori di carte di credito o di debito o di altri mezzi di pagamento. L’Autorità, ove riscontrasse violazioni del predetto divieto, si riserva di attivare i propri poteri sanzionatori, di cui all’art. 27 del Codice del Consumo”, scrive l’Antitrust.

Lavoro nero e illegale uguale il 12% del Pil

Brutto primato – purtroppo tutto in negativo – per l’economia italiana. Come indica una recente rilevazione curata dall’Istat, il cosiddetto “nero” nel Belpaese vale l’importo monstre di 210 miliardi di euro. Una cifra che rappresenta addirittura il 12,4% del Pil. Entrando nel merito delle cifre, il valore aggiunto generato dall’economia sommersa ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro, quello connesso alle attività illegali (incluso l’indotto) a circa 18 miliardi di euro. Nel 2016 la componente relativa alla sotto-dichiarazione pesava per il 45,5% del valore aggiunto (circa -0,6 punti percentuali rispetto al 2015). La restante parte era invece attribuibile per il 37,2% all’impiego di lavoro irregolare, per l’8,8% alle altre componenti (affitti in nero, mance) e per l’8,6% alle attività illegali.

I settori dove c’è più nero

Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (23,7%) e le costruzioni (22,7%) si confermano i settori dove l’economia sommersa è maggiormente presente. Ma, oltre a questi macrocomparti, il sommerso coinvolge poi tutte le aree delle sotto-dichiarazioni: Servizi professionali (16,3%), Commercio, Trasporti, alloggio e ristorazione (12,4%), Costruzioni (11,9%). Ma risulta pesantemente invischiato nel fenomeno anche il manifatturiero, soprattutto quello dedicato alla Produzione di beni alimentari e di consumo (7,5%). Il settore più colpito dall’impiego di lavoro irregolare è infine quello domestico o che riguarda agricoltura e pesca.

Un problema gravissimo per l’Italia e le casse dello Stato

Il lavoro nero, purtroppo, si conferma come uno dei più grandi problemi per l’Italia e le casse dello Stato. Come evidenziano i dati diffusi dall’Istat, è questo un fenomeno che produce un “buco” di circa 20 miliardi di euro per l’erario. Nel 2016, l’elenco degli irregolari raggiungeva i 3 milioni 701 mila, in prevalenza dipendenti (2 milioni 632 mila), un numero in lieve diminuzione rispetto al 2015 (rispettivamente -23 mila e -19 mila unità). L’incidenza del lavoro irregolare è particolarmente rilevante nel settore dei Servizi alle persone (47,2% nel 2016, in calo di 0,4 punti percentuali rispetto al 2015) ma risulta significativo anche nei comparti dell’Agricoltura (18,6%), delle Costruzioni (16,6%) e del Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (16,2%).

Le attività illegali “valgono” 18 miliardi di euro

Il peso economico dell’illegalità nella compilazione dei conti nazionali, conclude l’Istat, equivale a poco meno di 18 miliardi di euro di valore aggiunto (compreso l’indotto) con un aumento di 0,8 miliardi, sostanzialmente riconducibile alla dinamica dei prezzi relativi al traffico di stupefacenti. Non c’è davvero motivo di essere fieri di questo business.

 

Spotify compie 10 anni, e festeggia con 180 milioni di utenti

Spotify, la piattaforma di musica in streaming, festeggia i suoi primi 10 anni. È stata infatti lanciata in Svezia il 10 ottobre del 2008 da Daniel Ek e Martin Lorentzon, anche se in realtà la società nasce nel 2006 a Stoccolma, ma è stata messa a punto e lanciata ufficialmente due anni dopo. Negli Stati Uniti Spotify è arrivata nel 2011, e in Italia nel 2013. Le ragioni del suo successo? Il fatto di offrire agli utenti la comodità di accedere a una infinita libreria musicale in mobilità, e di potersi cimentare nelle playlist. Ma anche l’avere scatenato il dibattito sul giusto compenso agli artisti, accompagnato da polemiche e defezioni, come quella di Prince, portate avanti fino ai suoi ultimi giorni.

Musica accessibile nel rispetto della legge

L’intuizione di Spotify è stata quella di prendere spunto dal fenomeno Napster, la piattaforma  di file sharing attiva da giugno 1999 fino a luglio 2001, rendendo però la musica accessibile legalmente grazie agli accordi con le case discografiche. Inoltre, la modalità di ascolto in streaming ha scardinato l’industria musicale diventando un volano alla crescita del settore. In pratica, riferisce Ansa, Sporify ha privilegiato l’importanza dell’accesso alla musica contro il concetto di possesso, sostenuto invece da iTunes. A ruota sono nati poi una serie di concorrenti, come Deezer, YouTube Music, e Amazon Music, mentre la stessa Apple, con il servizio Music, sta facendo con Spotify una lotta serrata, soprattutto negli Stati Uniti.

In Italia le hit parade ormai tengono conto anche degli streaming

Spotify attualmente conta su una community di 180 milioni di utenti, di cui 83 milioni pagano un abbonamento. La piattaforma è presente in 65 mercati, e da pochi mesi si è anche quotata a Wall Street. In Italia le hit parade tengono conto anche degli streaming a pagamento degli artisti. Ma la modalità di streaming musicale ha spalancato le porte anche allo streaming video, altra intuizione dei big della tecnologia in rete, e non solo: basti pensare a Netflix. Spotify ha offerto dunque un’altra possibilità di guadagno ai musicisti, e ha vestito anche i panni del talent scout per quelli meno famosi. Ma non senza polemiche.

Il dibatto sul compenso agli artisti

“Ci sono dibattiti sui guadagni di musicisti e su quali artisti sceglie di promuovere, ma l’accesso libero e totale di Spotify rende sostanzialmente la piattaforma utopica”, osserva il Guardian in un ‘articolo dal titolo emblematico: “Dieci anni di Spotify hanno rovinato musica?”.

Da anni, infatti, imperversa un dibattito sul compenso finale che arriva agli artisti per ogni canzone o disco messo in streaming, giudicato troppo basso. Polemica portata avanti, oltre che da Prince, anche a fasi alterne da Thom Yorke dei Radiohead. Altro cavallo di battaglia dei detrattori di Spotify è l’algoritmo che sceglie le canzoni al posto nostro per alcuni tipi di playlist. Un modo comodo di fruizione, ma giudicato passivo.

Guida autonoma, l’Italia è ancora a metà strada

Ci vorranno ancora anni affinché in Italia le tecnologie siano mature per il livello 5 della guida autonoma, ovvero un livello di piena operatività e di totale autonomia del mezzo. Ma siamo ancora a metà strada rispetto al risultato finale. Dai sistemi radar ai sensori integrati, ai sistemi Lidar, che utilizzano il laser per individuare gli oggetti in strada, il nostro Paese è attivo anche nella componentistica per la guida autonoma, ma vuole far crescere le competenze nella nostra filiera, attraendo aziende anche dall’estero.

“Nel campo della guida autonoma il nostro compito – spiega Gianmarco Giorda, direttore dell’Associazione nazionale filiera industria automobilistica (ANFIA) all’Ansa – è sviluppare la capacità delle aziende italiane di affrontare le sfide. In sostanza, far crescere le competenze della nostra filiera, aiutando le aziende italiane a trovare le controparti estere che le aiutino a crescere”.

“In Italia abbiamo solo una parte delle competenze necessarie”

Telecomunicazioni e information technology “sono ad esempio due dei settori, indispensabili nello sviluppo di questi veicoli, su cui – ricorda il direttore dell’ANFIA – abbiamo molto bisogno di esperti. Quella della guida autonoma, infatti, è una materia talmente varia, con tecnologie diversificate, che abbiamo solo una parte delle competenze necessarie”.

Questa lacuna potrebbe essere colmata con lo “sviluppo in Italia, che vogliamo incentivare, di centri di competenza da parte delle aziende estere”, continua Giorda. L’Italia comunque è già attiva nel campo della guida autonoma, con aziende come Magneti Marelli e  STMicroelectronics.

“La componentistica italiana registra il 50% del fatturato oltreconfine”

“All’estero riconoscono il valore della componentistica italiana, che registra il 50% del fatturato oltreconfine e vede l’Italia seconda dopo la Germania, anche per la guida autonoma”, sottolinea Giorda.

E avranno componentistica italiana anche le Demo Car, che saranno sperimentate a Torino, e al cui progetto partecipano, tra le altre, Fca, Gm, Tim e ANFIA, e in Campania (ANFIA, Adler ed ST tra i partecipanti).

Al via i test a Torino e in Campania

I test nel capoluogo piemontese partiranno nei prossimi mesi. Prima vanno realizzate anche le infrastrutture che dialogano con il veicolo autonomo. “I test potranno essere svolti nelle strade aperte al traffico, grazie al via libera del decreto smart road”, commenta Giorda.

In Campania, invece, il progetto Borgo 4.0′ “vuole individuare un borgo ben collegato con autostrade e infrastrutture, localizzato ad almeno 700-800 metri sul livello del mare – dichiara Giorda – per poter testare le tecnologie in tutte le diverse condizioni climatiche”.